ESSERE VOCE DEI SENZA VOCE

Stop-Abortion-Now

Nessuno ne parla più, i giornali tacciono, i politici hanno archiviato la questione, la gente comune preferisce evitare di affrontare l’argomento, ma la realtà, nuda e cruda, non cambia ed è sotto gli occhi di tutti: sono più di 5 milioni i bimbi abortiti nel grembo materno dal 1978 ad oggi, ovvero da quando fu approvata la legge 194, che legittima la soppressione volontaria dell’embrione nei primi tre mesi di gravidanza. E a questo punto noi ci chiediamo: chi ci guadagna?

 

Di certo non sono le donne a giovarne, poiché ogni aborto procurato rischia di causare gravi patologie alla madre, come ad esempio il senso di colpa, perdita di autostima, ansia, depressione e altro ancora. E questo, purtroppo, è naturale, dal momento che le donne perdono il proprio bambino. La Marcia per la vita, (Roma, 8 Maggio 2016, ore 9 Bocca della Verità) infatti, è anche e soprattutto in difesa delle donne, le quali, quando restano inaspettatamente in dolce attesa, spesso si trovano sole e spinte verso la via d’uscita più facile – ma sempre più dolorosa – costituita dall’aborto procurato.

 

Ed è da questa dolorosa consapevolezza che un gruppo di giovani universitari, decidono di impegnarsi per la difesa della vita umana.

Per essere voce dei senza voce, per farsi avvocati e difensori della vita umana.

Perché quando si capisce e si vede cos’è l’aborto, non si può fare a meno di impegnarsi per impedirlo.

La nostra attività, vede come obiettivo principale l’informazione: spiegare in termini scientifici cosa accade durante un aborto, i motivi per cui l’aborto è l’uccisione di un innocente, quale sia la verità- anche se dolorosa e difficile da accettare- in mezzo alle tante bugie e mistificazioni, di cui siamo bombardati nella società di oggi.

Chi sono i nostri principale destinatari? I giovani universitari, in cui constatiamo una grande mancanza d’informazione, perché su queste tematiche molti hanno paura di esporsi, di parlarne….

C’è un silenzio velato, come se quei più di 5 milioni di bambini italiani, non siano mai esistiti.

 

Devono essere i giovani, i nuovi avvocati delle migliaia di vite umane, abortite ancor prima di vedere la luce.

Invitiamo tutti a partecipare alla Marcia per la Vita, perché chi attacca un solo innocente, simbolicamente attacca l’intera società. E gli innocenti che muoiono ogni anno in Italia per colpa dell’aborto procurato sono più di centomila. Chi si rende conto di quanto sia grave una simile ingiustizia, si faccia vedere in piazza l’8 maggio e ci aiuti a difendere le donne e i bambini.

Inoltre, per chi fosse interessato, sabato 7 maggio alle ore 20:00 ci sarà l’adorazione Eucaristica in riparazione per il crimine dell’aborto presso la Basilica Santa Maria sopra Minerva (Piazza della Minerva, 42 -00186 Roma).

Chiunque voglia aiutarci ed unirsi a noi, può contattarci a uniperlavita@gmail.com

Per la vita,

Universitari per la Vita

 

SAN MASSIMILIANO M.KOLBE: UNA VITA SENZA CONFINI

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“Ave Maria!” Furono queste le ultime parole pronunciate da San Massimiliano prima di morire, porgendo il braccio per l’iniezione al carnefice.

Una vita spesa tutta per Maria. Un santo che è ormai modello di assoluta marianità.

Il 28 maggio del 1941 padre Massimiliano Maria Kolbe arrivò nel lager di Auschwitz. Durante il periodo di prigionia, scrisse una sola lettera alla madre, da cui traspare serenità e un totale abbandono alla volontà di Dio: «Mia cara mamma, verso la fine del mese di maggio sono giunto con un convoglio ferroviario nel campo di Auschwitz. Da me va tutto bene. Amata mamma, stai tranquilla per me e la mia salute, perché il buon Dio c’è in ogni luogo e con grande amore pensa a tutti e a tutto». Ripeteva sempre ai compagni di prigionia, sia ai cristiani che ai non cristiani: «L’odio non è forza creativa; solo l’amore crea… Queste sofferenze non ci spezzeranno, ma ci aiuteranno a diventare sempre più forti. Sono necessarie, insieme ai sacrifici degli altri, perché chi verrà dopo di noi possa essere felice». Diceva spesso: «Per Gesù Cristo sono pronto a soffrire anche più di così. L’Immacolata mi aiuterà». Un prigioniero ebreo disse di lui: «Questo prete cattolico è proprio un galantuomo. Finora uno simile qui non l’abbiamo avuto».

Alessandro Dziuba: «Aveva una fede eroica in Dio e vedeva il suo intervento in ogni cosa. Se un prigioniero stava per morire, diceva: “Questa è la volontà di Dio”; Lui stesso si abbandonava a Dio completamente. Ricordo che una volta disse che non avrebbe esitato a dare la sua vita per Dio e notai che non progettava né organizzava mai le cose per avere qualcosa da mangiare per sé, o per ottenere degli abiti migliori, o un reparto migliore dove lavorare… Lui si preoccupava solo “dell’anima e della fede”, e questo glielo ho udito dire io stesso».

Ladislao Lewkowicz: «Fin dal giorno in cui arrivò nel campo della morte, lo incontrai spesso, all’appello della sera. Nonostante la sua testa fosse piegata, forse a causa della poca salute, e parlasse lentamente e a bassa voce, le sue parole mi davano speranza e forza per superare le sofferenze con grande e profonda soddisfazione e gioia. Dopo averlo ascoltato, sentivo che non avevo più paura di morire, una cosa che mi aveva sempre angosciato… Nel campo di concentramento noi eravamo distrutti a causa delle sofferenze inumane e privati della fede, ma lui non solo accettava tutto come dono di Dio, ma lo ringraziava e lo amava ancora di più».

Miecislao Koscielniak: «Ci spronava a perseverare coraggiosamente. “Non vi abbattete moralmente”, ci pregava, assicurandoci che la giustizia di Dio esiste e che avrebbe alla fine sconfitto i nazisti. Ascoltandolo attentamente dimenticavamo per un po’ la fame e il degrado a cui eravamo sottoposti. Ci faceva vedere che le nostre anime non erano morte, che la nostra dignità di cattolici e di polacchi non era distrutta. Sollevati nello spirito, tornavamo nei nostri Blocchi ripetendo le sue parole: “Non dobbiamo abbatterci, noi sopravviveremo sicuramente, loro non uccideranno lo spirito che è in noi”.»

Padre Sigismondo Ruszczak: «Nelle mie preghiere non c’era davvero nessuna abitudine: erano intense, piene di angoscia, della fede più profonda e accompagnate dalle lacrime. È così che pregavo ad Auschwitz. Quando venni in contatto con padre Massimiliano, mi ribellavo a Dio dicendo: “Perché? Perché? Come puoi permettere tutto ciò?”. A quel tempo padre Massimiliano aveva ancora i lividi delle bastonate, ma non si lamentava mai. Fu lui che mi aiutò a penetrare nel senso della sofferenza».

Bruno Borgowiec: «Si può dire che la presenza di Padre Massimiliano nel bunker fu necessaria per gli altri… Stavano impazzendo al pensiero che non sarebbero più tornati alle loro famiglie, alle loro case e gridavano per la disperazione. Egli riuscì a rendere loro la pace ed essi iniziarono a rassegnarsi. Con il dono della consolazione che egli offrì loro, prolungò le vite dei condannati, di solito così psicologicamente distrutti che morivano in pochi giorni… Le porte della cella erano di quercia, e grazie al silenzio e all’acustica, la voce di Kolbe in preghiera si estendeva anche alle altre celle, dove i prigionieri potevano udirla bene… Da allora in poi, ogni giorno, dalla cella dove si trovavano queste povere anime e alle quali si univano le altre voci, si poteva udire la recita delle preghiere, il Rosario, gli inni. Padre Massimiliano li guidava e gli altri rispondevano in coro. Poiché queste preghiere e gli inni risuonavano in ogni parte del bunker, avevo l’impressione di essere in una chiesa. Egli non chiedeva niente e non si lamentava mai. Guardava direttamente negli occhi, con intensità, coloro che entravano nella cella. Quegli occhi, i suoi, che erano stati sempre così incredibilmente penetranti. Gli uomini delle SS non potevano sostenere il suo sguardo e sbraitavano: SCHAU AUF DIE ERDE, NICH AUF URS!, cioè: Guarda il pavimento, non noi!

14 agosto 1941. Erano già passate due settimane. I prigionieri morivano uno dopo l’altro e ne rimanevano solo quattro, tra i quali padre Massimiliano, ancora in stato di conoscenza… Un giorno fu inviato il criminale tedesco Bock per fare un’iniezione di acido fenico ai prigionieri… Quando Bock arrivò là, lo dovetti accompagnare alla cella. Vidi padre Massimiliano, in preghiera, porgere lui stesso il braccio al suo assassino. Non potevo sopportarlo. Con la scusa che avevo del lavoro da fare, me ne andai. Ma non appena gli uomini delle SS e il boia se ne furono andati, tornai. Gli altri corpi, nudi e sporchi, erano stesi sul pavimento, con i volti che mostravano i segni della sofferenza. Padre Massimiliano era seduto, eretto, appoggiato al muro. Il suo corpo non era sporco come gli altri, ma pulito e luminoso. La testa era piegata leggermente da una parte. Il suo volto era puro e sereno, raggiante. Chiunque avrebbe notato e pensato che questi fosse un santo».

Michele Micherdzinski: «San Massimiliano Kolbe salvò prima di tutto in noi la nostra umanità. Fu una guida spirituale nella cella della fame, incoraggiava, guidava la preghiera, conduceva i moribondi con un segno della croce all’altra vita. In noi, salvati dalla selezione, fortificò la fede e la speranza. In questo clima di terrore e di male ci restituì la speranza».

san Massimiliano Maria Kolbe sac m e Maria SS

Giorgio Bielecki: «Fu uno shock enorme per tutto il campo. Ci rendemmo conto che qualcuno tra di noi, in quella oscura notte spirituale dell’anima, aveva innalzato la misura dell’amore fino alla vetta più alta… Dire che padre Massimiliano Kolbe morì per uno di noi o per la famiglia di quella persona sarebbe riduttivo. La sua morte fu la salvezza di migliaia di vite umane. E in questo, potrei dire, sta la grandezza di quella morte…».

SAN BONAVENTURA: DOTTORE SERAFICO

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Fu effettivamente di “bona ventura” per la Chiesa.

Definito secondo fondatore dell’Ordine Francescano, scrisse la “Legenda Maior”, biografia ufficiale di San Francesco.

Morì nel 1274, durante il Concilio di Lione che segnò il riavvicinamento tra Chiesa latina e greca.

Catechesi di Benedetto XVI all’udienza generale di mercoledì 3 marzo 2010:

Cari fratelli e sorelle,
quest’oggi vorrei parlare di san Bonaventura da Bagnoregio. Vi confido che, nel proporvi questo argomento, avverto una certa nostalgia, perché ripenso alle ricerche che, da giovane studioso, ho condotto proprio su questo autore, a me particolarmente caro. La sua conoscenza ha inciso non poco nella mia formazione. Con molta gioia qualche mese fa mi sono recato in pellegrinaggio al suo luogo natio, Bagnoregio, una cittadina italiana, nel Lazio, che ne custodisce con venerazione la memoria.
Nato probabilmente nel 1217 e morto nel 1274, egli visse nel XIII secolo, un’epoca in cui la fede cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia. Tra le grandi figure cristiane che contribuirono alla composizione di questa armonia tra fede e cultura si staglia appunto Bonaventura, uomo di azione e di contemplazione, di profonda pietà e di prudenza nel governo.
Si chiamava Giovanni da Fidanza. Un episodio che accadde quando era ancora ragazzo segnò profondamente la sua vita, come egli stesso racconta. Era stato colpito da una grave malattia e neppure suo padre, che era medico, sperava ormai di salvarlo dalla morte. Sua madre, allora, ricorse all’intercessione di san Francesco d’Assisi, da poco canonizzato. E Giovanni guarì.
La figura del Poverello di Assisi gli divenne ancora più familiare qualche anno dopo, quando si trovava a Parigi, dove si era recato per i suoi studi. Aveva ottenuto il diploma di Maestro d’Arti, che potremmo paragonare a quello di un prestigioso Liceo dei nostri tempi. A quel punto, come tanti giovani del passato e anche di oggi, Giovanni si pose una domanda cruciale: “Che cosa devo fare della mia vita?”. Affascinato dalla testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori, che erano giunti a Parigi nel 1219, Giovanni bussò alle porte del Convento francescano di quella città, e chiese di essere accolto nella grande famiglia dei discepoli di san Francesco. Molti anni dopo, egli spiegò le ragioni della sua scelta: in san Francesco e nel movimento da lui iniziato ravvisava l’azione di Cristo. Scriveva così in una lettera indirizzata ad un altro frate: “Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo” (Epistula de tribus quaestionibus ad magistrum innominatum, in Opere di San Bonaventura. Introduzione generale, Roma 1990, p. 29).
Pertanto, intorno all’anno 1243 Giovanni vestì il saio francescano e assunse il nome di Bonaventura. Venne subito indirizzato agli studi, e frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi, seguendo un insieme di corsi molto impegnativi. Conseguì i vari titoli richiesti dalla carriera accademica, quelli di “baccelliere biblico” e di “baccelliere sentenziario”. Così Bonaventura studiò a fondo la Sacra Scrittura, le Sentenze di Pietro Lombardo, il manuale di teologia di quel tempo, e i più importanti autori di teologia e, a contatto con i maestri e gli studenti che affluivano a Parigi da tutta l’Europa, maturò una propria riflessione personale e una sensibilità spirituale di grande valore che, nel corso degli anni successivi, seppe trasfondere nelle sue opere e nei suoi sermoni, diventando così uno dei teologi più importanti della storia della Chiesa. È significativo ricordare il titolo della tesi che egli difese per essere abilitato all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora. La sua dissertazione aveva come titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo. Questo argomento mostra il ruolo centrale che Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura. Possiamo dire senz’altro che tutto il suo pensiero fu profondamente cristocentrico.
In quegli anni a Parigi, la città di adozione di Bonaventura, divampava una violenta polemica contro i Frati Minori di san Francesco d’Assisi e i Frati Predicatori di san Domenico di Guzman. Si contestava il loro diritto di insegnare nell’Università, e si metteva in dubbio persino l’autenticità della loro vita consacrata. Certamente, i cambiamenti introdotti dagli Ordini Mendicanti nel modo di intendere la vita religiosa, di cui ho parlato nelle catechesi precedenti, erano talmente innovativi che non tutti riuscivano a comprenderli. Si aggiungevano poi, come qualche volta accade anche tra persone sinceramente religiose, motivi di debolezza umana, come l’invidia e la gelosia. Bonaventura, anche se circondato dall’opposizione degli altri maestri universitari, aveva già iniziato a insegnare presso la cattedra di teologia dei Francescani e, per rispondere a chi contestava gli Ordini Mendicanti, compose uno scritto intitolato La perfezione evangelica. In questo scritto dimostra come gli Ordini Mendicanti, in specie i Frati Minori, praticando i voti di povertà, di castità e di obbedienza, seguivano i consigli del Vangelo stesso. Al di là di queste circostanze storiche, l’insegnamento fornito da Bonaventura in questa sua opera e nella sua vita rimane sempre attuale: la Chiesa è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione di quei suoi figli e di quelle sue figlie che non solo mettono in pratica i precetti evangelici ma, per la grazia di Dio, sono chiamati ad osservarne i consigli e testimoniano così, con il loro stile di vita povero, casto e obbediente, che il Vangelo è sorgente di gioia e di perfezione.
Il conflitto fu acquietato, almeno per un certo tempo, e, per intervento personale del Papa Alessandro IV, nel 1257, Bonaventura fu riconosciuto ufficialmente come dottore e maestro dell’Università parigina. Tuttavia egli dovette rinunciare a questo prestigioso incarico, perché in quello stesso anno il Capitolo generale dell’Ordine lo elesse Ministro generale.
Svolse questo incarico per diciassette anni con saggezza e dedizione, visitando le province, scrivendo ai fratelli, intervenendo talvolta con una certa severità per eliminare abusi. Quando Bonaventura iniziò questo servizio, l’Ordine dei Frati Minori si era sviluppato in modo prodigioso: erano più di 30.000 i Frati sparsi in tutto l’Occidente con presenze missionarie nell’Africa del Nord, in Medio Oriente, e anche a Pechino. Occorreva consolidare questa espansione e soprattutto conferirle, in piena fedeltà al carisma di Francesco, unità di azione e di spirito. Infatti, tra i seguaci del santo di Assisi si registravano diversi modi di interpretarne il messaggio ed esisteva realmente il rischio di una frattura interna. Per evitare questo pericolo, il Capitolo generale dell’Ordine a Narbona, nel 1260, accettò e ratificò un testo proposto da Bonaventura, in cui si raccoglievano e si unificavano le norme che regolavano la vita quotidiana dei Frati minori. Bonaventura intuiva, tuttavia, che le disposizioni legislative, per quanto ispirate a saggezza e moderazione, non erano sufficienti ad assicurare la comunione dello spirito e dei cuori. Bisognava condividere gli stessi ideali e le stesse motivazioni. Per questo motivo, Bonaventura volle presentare l’autentico carisma di Francesco, la sua vita ed il suo insegnamento. Raccolse, perciò, con grande zelo documenti riguardanti il Poverello e ascoltò con attenzione i ricordi di coloro che avevano conosciuto direttamente Francesco. Ne nacque una biografia, storicamente ben fondata, del santo di Assisi, intitolata Legenda Maior, redatta anche in forma più succinta, e chiamata perciò Legenda minor. La parola latina, a differenza di quella italiana, non indica un frutto della fantasia, ma, al contrario, “Legenda” significa un testo autorevole, “da leggersi” ufficialmente. Infatti, il Capitolo generale dei Frati Minori del 1263, riunitosi a Pisa, riconobbe nella biografia di san Bonaventura il ritratto più fedele del Fondatore e questa divenne, così, la biografia ufficiale del Santo.
Qual è l’immagine di san Francesco che emerge dal cuore e dalla penna del suo figlio devoto e successore, san Bonaventura? Il punto essenziale: Francesco è un alter Christus, un uomo che ha cercato appassionatamente Cristo. Nell’amore che spinge all’imitazione, egli si è conformato interamente a Lui. Bonaventura additava questo ideale vivo a tutti i seguaci di Francesco. Questo ideale, valido per ogni cristiano, ieri, oggi, sempre, è stato indicato come programma anche per la Chiesa del Terzo Millennio dal mio Predecessore, il Venerabile Giovanni Paolo II. Tale programma, egli scriveva nella Lettera Novo Millennio ineunte, si incentra “in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste” (n. 29).
Nel 1273 la vita di san Bonaventura conobbe un altro cambiamento. Il Papa Gregorio X lo volle consacrare Vescovo e nominare Cardinale. Gli chiese anche di preparare un importantissimo evento ecclesiale: il II Concilio Ecumenico di Lione, che aveva come scopo il ristabilimento della comunione tra la Chiesa Latina e quella Greca. Egli si dedicò a questo compito con diligenza, ma non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica, perché morì durante il suo svolgimento. Un anonimo notaio pontificio compose un elogio di Bonaventura, che ci offre un ritratto conclusivo di questo grande santo ed eccellente teologo: “Uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini… Dio infatti gli aveva donato una tale grazia, che tutti coloro che lo vedevano erano pervasi da un amore che il cuore non poteva celare” (cfr J.G. Bougerol, Bonaventura, in A. Vauchez (a cura), Storia dei santi e della santità cristiana. Vol. VI. L’epoca del rinnovamento evangelico, Milano 1991, p. 91).
Raccogliamo l’eredità di questo santo Dottore della Chiesa, che ci ricorda il senso della nostra vita con le seguenti parole: “Sulla terra… possiamo contemplare l’immensità divina mediante il ragionamento e l’ammirazione; nella patria celeste, invece, mediante la visione, quando saremo fatti simili a Dio, e mediante l’estasi … entreremo nel gaudio di Dio” (La conoscenza di Cristo, q. 6, conclusione, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 187).

MARIA, REGINA DELLA VITA: PREGA PER NOI!

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Maria è stata Madre di Cristo, ed è modello di ogni madre che voglia raggiungere la santità.

Maria, Regina della Vita, possa aiutare l’umanità intera ad uscire da una cultura di morte e ad apprezzare la dignità della vita umana, che è qualcosa di intrinseco ed intoccabile.

Preghiamo Maria, che è Madre di tutti quei 6 milioni di bambini abortiti in Italia, 6 milioni di innocenti che hanno pagato le colpe di una società indifferente e crudele.

Preghiamo Maria per tutte le vittime di questo genocidio silenzioso, di cui raramente si parla, che raramente hanno voce….

Preghiamo Maria che accolga tra le sue braccia tutte quelle vite innocenti straziate, frantumate e gettate via come scarti di fabbrica…

Preghiamo Maria che è la Stella del Mattino, affinché l’uomo, in balia della tempesta, possa comprendere il senso della vita, la bellezza di un bambino anche se non sano, e possa riconoscere anche nell’ultimo nato sulla Terra un dono da accogliere con gioia e responsabilità.

Perché la vita è sempre vita e va difesa senza paura, senza compromessi. Sempre.

CRISTO E’ LUCE

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Tratto dai Discorsi di San Massimo di Torino:

“La luce di Cristo è giorno senza notte, giorno che non conosce tramonto. Che poi questo giorno sai Cristo, lo dice l’Apostolo: «La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13, 12). Dice: «avanzata»; non dice che debba ancora venire, per farti comprendere che quando Cristo ti illumina con la sua luce, devi allontanare da te le tenebre del diavolo, troncare l’oscura catena del peccato, dissipare con questa luce le caligini di un tempo e soffocare in te gli stimoli delittuosi.
Questo giorno è lo stesso Figlio, su cui il Padre, che è giorno senza principio, fa splendere il sole della sua divinità.
Dirò anzi che egli stesso è quel giorno che ha parlato per mezzo di Salomone: «Io ho fatto sì che spuntasse in cielo una luce che non viene meno» (Sir 24, 6 volg.). Come dunque al giorno del cielo non segue la notte, così le tenebre del peccato non possono far seguito alla giustizia di Cristo. Il giorno del cielo infatti risplende in eterno, la sua luce abbagliante non può venire sopraffatta da alcuna oscurità. Altrettanto deve dirsi della luce di Cristo che sempre risplende nel suo radioso fulgore senza poter essere ostacolata da caligine alcuna. Ben a ragione l’evangelista Giovanni dice: La luce brilla nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta (cfr. Gv 1, 5).
Pertanto, fratelli, tutti dobbiamo rallegrarci in questo santo giorno. Nessuno deve sottrarsi alla letizia comune a motivo dei peccati che ancora gravano sulla sua coscienza. Nessuno sia trattenuto dal partecipare alle preghiere comuni a causa dei gravi peccati che ancora lo opprimono. Sebbene peccatore, in questo giorno nessuno deve disperare del perdono. Abbiamo infatti una prova non piccola: se il ladro ha ottenuto il paradiso, perché non dovrebbe ottenere perdono il cristiano?

Auguri di una Santa Pasqua.

L’EUCARESTIA ED I SANTI: COME PRENDERE ESEMPIO

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“Non dite che non ne siete degni. È vero, non ne siete degni, ma ne avete bisogno. Se Nostro Signore avesse pensato alla nostra dignità, non avrebbe mai istituito questo bel sacramento d’amore, perché nessuno al mondo ne è degno, né i santi, né gli angeli, né gli arcangeli… Egli, invece, ha pensato ai nostri bisogni e tutti noi abbiamo bisogno del suo corpo e del suo sangue. Non dite che siete peccatori, che siete troppo miserabili e che per questo motivo non osate accostarvi a questo sacramento. Vorrei proprio vedere se sareste capaci di dire che siete troppo malati e che per questo motivo non volete provare alcun rimedio, né chiamare un medico”

(San Giovanni Maria Vianney)

“Il Presepio e il Calvario sono la prima e l’ultima nota, la prima e l’ultima pagina di quel poema immenso, divino, ineffabile d’amore e di sacrificio che è tutta la vita di Gesù Cristo. In queste parole sono delineati i misteri della vita di Gesù-Uomo-Dio, quelli fondamentali, per cui:

Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini (…) Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. L’assumere la forma di servo è proprio dell’Incarnazione, mistero in cui Dio fa propria la povertà Umana”

(Beato Francesco Spinelli)

Con l’augurio che il giovedì Santo apporti una maggior vita Eucaristica, proprio come nei santi.

Amare appassionatamente la vita umana

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«Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che avete ricevuto da Dio, e che non appartenete quindi a voi stessi?» San Josemarìa Escrivá riprese questa domanda dell’Apostolo durante una delle sue più famose omelie dal titolo Amare il mondo appassionatamente, pronunciata nel campus dell’Università di Navarra, l’8 ottobre 1967.

Sono parole che interrogano le coscienze di tutte le donne e di tutti gli uomini di buona volontà. Sono parole che riguardano il dono più grande che Dio ha concesso all’essere umano, la libertà, e che ci devono spingere ad amare profondamente la vita umana innocente.

La cultura dominante, che vuole divenire egemone, mistifica l’essenza del dono della libertà e lo rende strumento per giustificare la soddisfazione dei desideri. Siccome l’uomo è libero – si dice – può decidere della propria e dell’altrui vita e questa sua decisione è insindacabile. Sono io che stabilisco di portare o non portare a termine una gravidanza e eliminare il prodotto del concepimento – un grumo di cellule per alcuni – corrisponde ad un mio diritto. Sono io che seleziono – attraverso gli strumenti che la scienza mi mette a disposizione – la vita che deve nascere, eliminando quella che non è perfetta. Sono io che sopprimo la mia vita e quella degli altri, se stabilisco che non è degna di essere vissuta.

Ha fatto il giro del mondo la toccante testimonianza di Gianna Jessen, sopravvissuta all’aborto salino, uno tra i metodi più crudeli per interrompere una gravidanza: viene iniettata una soluzione salina nell’utero ed il bambino viene partorito entro le 24 ore morto.

Tra lo stupore di tutti Gianna nasce viva, ed il medico che doveva finirla, soffocandola, non c’è.

Di lei si prende cura il personale di servizio, ma poco dopo viene affidata ad una donna di nome Penny, la quale viene informata che la bambina non camminerà mai a causa di una paralisi cerebrale.

Penny non si scoraggia: prega per questa bambina e lavora con la fisioterapista tre volte al giorno.

I miglioramenti sono evidenti: prima Gianna riesce a camminare con l’ausilio di un apparecchio ortopedico, poi da sola.

Oggi questa donna sopravvissuta (ha 37 anni) è un’attivista impegnata a difendere la vita ed a lottare contro l’aborto.

Nel 2011 è uscito nelle sale statunitensi il bellissimo film “October Baby”, ispirato alla vita di Gianna Jessen.

Con la Marcia per la Vita, che è arrivata alla sua V edizione – si svolgerà a Roma il prossimo 10 maggio e partirà da Castel Sant’Angelo alle ore 14.00 – intendiamo contrapporre a questa cultura di morte quella che si richiama ai principi del diritto naturale e, quindi, divino. Vogliamo affermare l’indisponibilità e l’intangibilità del bene vita, dal concepimento alla morte naturale, rifiutando ogni alcun tipo di compromesso su quelli che Benedetto XVI definiva i valori non negoziabili. E la vita umana  è uno di essi. La legge sull’aborto del 1978, la 194, che ha contribuito in maniera determinante, dalla sua introduzione ad oggi, allo sterminio di 6 milioni di vite umane, potrà essere messa in discussione solo se si rafforzerà il popolo della vita e se molti comprenderanno la necessità di testimoniare quello che invocava il fondatore dell’Opus Dei: amare il mondo, e quindi la vita,  perché tutto è dono di Dio. Anche la libertà, che non può mai essere separata dalla verità e dal bene, ha in Dio il suo fondamento.

SAN GIOVANNI DI DIO: IL PADRE DEI MALATI

giovanni

Nacque in Portogallo, ma ben presto fuggì di casa. In gioventù, si arruolò  tra i soldati di ventura, partecipando anche alla difesa di Vienna sotto l’assedio ottomano di Solimano II.

Vagò poi fino in Africa e divenne bracciante, poi venditore ambulante; infine a Granada aprì una piccola libreria.

Una vita frenetica, senza scopo, senza ambizioni.

Giovanni ascoltò un giorno provvidenzialmente, una predica di San Giovanni d’Avila.

Decise di cambiare vita: si privò di ogni cosa ed andò a mendicare per le vie di Granada, spartendo ciò che aveva con i più poveri.

Alcuni non comprendevano la fede di Giovanni, perciò lo rinchiusero in un manicomio.

Ma Dio si servì anche di questo.

Giovanni si rese conto della condizione in cui si trovavano i malati mentali, curati con metodi degni di un torturatore.

Appena riuscì ad uscire, fondò con l’aiuto dei benefattori un ospedale e si mostrò, nonostante fosse ignorante di medicina, più bravo degli stessi medici, anticipando certi aspetti del metodo psicoanalitico.

La cura dello spirito era necessaria per la cura del corpo. Solo così si poteva giovare ai malati.

Giovanni fondò una famiglia ospedaliera, i Fratelli Ospedalieri (Fatebenefratelli).

L’8 Marzo 1550, dopo aver servito i malati e dopo aver improntato la sua vita alla carità di Maria, morì per entrare nella gloria.

Proposito: una corona del Rosario per tutti i medici