SAN MASSIMILIANO M.KOLBE: UNA VITA SENZA CONFINI

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“Ave Maria!” Furono queste le ultime parole pronunciate da San Massimiliano prima di morire, porgendo il braccio per l’iniezione al carnefice.

Una vita spesa tutta per Maria. Un santo che è ormai modello di assoluta marianità.

Il 28 maggio del 1941 padre Massimiliano Maria Kolbe arrivò nel lager di Auschwitz. Durante il periodo di prigionia, scrisse una sola lettera alla madre, da cui traspare serenità e un totale abbandono alla volontà di Dio: «Mia cara mamma, verso la fine del mese di maggio sono giunto con un convoglio ferroviario nel campo di Auschwitz. Da me va tutto bene. Amata mamma, stai tranquilla per me e la mia salute, perché il buon Dio c’è in ogni luogo e con grande amore pensa a tutti e a tutto». Ripeteva sempre ai compagni di prigionia, sia ai cristiani che ai non cristiani: «L’odio non è forza creativa; solo l’amore crea… Queste sofferenze non ci spezzeranno, ma ci aiuteranno a diventare sempre più forti. Sono necessarie, insieme ai sacrifici degli altri, perché chi verrà dopo di noi possa essere felice». Diceva spesso: «Per Gesù Cristo sono pronto a soffrire anche più di così. L’Immacolata mi aiuterà». Un prigioniero ebreo disse di lui: «Questo prete cattolico è proprio un galantuomo. Finora uno simile qui non l’abbiamo avuto».

Alessandro Dziuba: «Aveva una fede eroica in Dio e vedeva il suo intervento in ogni cosa. Se un prigioniero stava per morire, diceva: “Questa è la volontà di Dio”; Lui stesso si abbandonava a Dio completamente. Ricordo che una volta disse che non avrebbe esitato a dare la sua vita per Dio e notai che non progettava né organizzava mai le cose per avere qualcosa da mangiare per sé, o per ottenere degli abiti migliori, o un reparto migliore dove lavorare… Lui si preoccupava solo “dell’anima e della fede”, e questo glielo ho udito dire io stesso».

Ladislao Lewkowicz: «Fin dal giorno in cui arrivò nel campo della morte, lo incontrai spesso, all’appello della sera. Nonostante la sua testa fosse piegata, forse a causa della poca salute, e parlasse lentamente e a bassa voce, le sue parole mi davano speranza e forza per superare le sofferenze con grande e profonda soddisfazione e gioia. Dopo averlo ascoltato, sentivo che non avevo più paura di morire, una cosa che mi aveva sempre angosciato… Nel campo di concentramento noi eravamo distrutti a causa delle sofferenze inumane e privati della fede, ma lui non solo accettava tutto come dono di Dio, ma lo ringraziava e lo amava ancora di più».

Miecislao Koscielniak: «Ci spronava a perseverare coraggiosamente. “Non vi abbattete moralmente”, ci pregava, assicurandoci che la giustizia di Dio esiste e che avrebbe alla fine sconfitto i nazisti. Ascoltandolo attentamente dimenticavamo per un po’ la fame e il degrado a cui eravamo sottoposti. Ci faceva vedere che le nostre anime non erano morte, che la nostra dignità di cattolici e di polacchi non era distrutta. Sollevati nello spirito, tornavamo nei nostri Blocchi ripetendo le sue parole: “Non dobbiamo abbatterci, noi sopravviveremo sicuramente, loro non uccideranno lo spirito che è in noi”.»

Padre Sigismondo Ruszczak: «Nelle mie preghiere non c’era davvero nessuna abitudine: erano intense, piene di angoscia, della fede più profonda e accompagnate dalle lacrime. È così che pregavo ad Auschwitz. Quando venni in contatto con padre Massimiliano, mi ribellavo a Dio dicendo: “Perché? Perché? Come puoi permettere tutto ciò?”. A quel tempo padre Massimiliano aveva ancora i lividi delle bastonate, ma non si lamentava mai. Fu lui che mi aiutò a penetrare nel senso della sofferenza».

Bruno Borgowiec: «Si può dire che la presenza di Padre Massimiliano nel bunker fu necessaria per gli altri… Stavano impazzendo al pensiero che non sarebbero più tornati alle loro famiglie, alle loro case e gridavano per la disperazione. Egli riuscì a rendere loro la pace ed essi iniziarono a rassegnarsi. Con il dono della consolazione che egli offrì loro, prolungò le vite dei condannati, di solito così psicologicamente distrutti che morivano in pochi giorni… Le porte della cella erano di quercia, e grazie al silenzio e all’acustica, la voce di Kolbe in preghiera si estendeva anche alle altre celle, dove i prigionieri potevano udirla bene… Da allora in poi, ogni giorno, dalla cella dove si trovavano queste povere anime e alle quali si univano le altre voci, si poteva udire la recita delle preghiere, il Rosario, gli inni. Padre Massimiliano li guidava e gli altri rispondevano in coro. Poiché queste preghiere e gli inni risuonavano in ogni parte del bunker, avevo l’impressione di essere in una chiesa. Egli non chiedeva niente e non si lamentava mai. Guardava direttamente negli occhi, con intensità, coloro che entravano nella cella. Quegli occhi, i suoi, che erano stati sempre così incredibilmente penetranti. Gli uomini delle SS non potevano sostenere il suo sguardo e sbraitavano: SCHAU AUF DIE ERDE, NICH AUF URS!, cioè: Guarda il pavimento, non noi!

14 agosto 1941. Erano già passate due settimane. I prigionieri morivano uno dopo l’altro e ne rimanevano solo quattro, tra i quali padre Massimiliano, ancora in stato di conoscenza… Un giorno fu inviato il criminale tedesco Bock per fare un’iniezione di acido fenico ai prigionieri… Quando Bock arrivò là, lo dovetti accompagnare alla cella. Vidi padre Massimiliano, in preghiera, porgere lui stesso il braccio al suo assassino. Non potevo sopportarlo. Con la scusa che avevo del lavoro da fare, me ne andai. Ma non appena gli uomini delle SS e il boia se ne furono andati, tornai. Gli altri corpi, nudi e sporchi, erano stesi sul pavimento, con i volti che mostravano i segni della sofferenza. Padre Massimiliano era seduto, eretto, appoggiato al muro. Il suo corpo non era sporco come gli altri, ma pulito e luminoso. La testa era piegata leggermente da una parte. Il suo volto era puro e sereno, raggiante. Chiunque avrebbe notato e pensato che questi fosse un santo».

Michele Micherdzinski: «San Massimiliano Kolbe salvò prima di tutto in noi la nostra umanità. Fu una guida spirituale nella cella della fame, incoraggiava, guidava la preghiera, conduceva i moribondi con un segno della croce all’altra vita. In noi, salvati dalla selezione, fortificò la fede e la speranza. In questo clima di terrore e di male ci restituì la speranza».

san Massimiliano Maria Kolbe sac m e Maria SS

Giorgio Bielecki: «Fu uno shock enorme per tutto il campo. Ci rendemmo conto che qualcuno tra di noi, in quella oscura notte spirituale dell’anima, aveva innalzato la misura dell’amore fino alla vetta più alta… Dire che padre Massimiliano Kolbe morì per uno di noi o per la famiglia di quella persona sarebbe riduttivo. La sua morte fu la salvezza di migliaia di vite umane. E in questo, potrei dire, sta la grandezza di quella morte…».

SAN BONAVENTURA: DOTTORE SERAFICO

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Fu effettivamente di “bona ventura” per la Chiesa.

Definito secondo fondatore dell’Ordine Francescano, scrisse la “Legenda Maior”, biografia ufficiale di San Francesco.

Morì nel 1274, durante il Concilio di Lione che segnò il riavvicinamento tra Chiesa latina e greca.

Catechesi di Benedetto XVI all’udienza generale di mercoledì 3 marzo 2010:

Cari fratelli e sorelle,
quest’oggi vorrei parlare di san Bonaventura da Bagnoregio. Vi confido che, nel proporvi questo argomento, avverto una certa nostalgia, perché ripenso alle ricerche che, da giovane studioso, ho condotto proprio su questo autore, a me particolarmente caro. La sua conoscenza ha inciso non poco nella mia formazione. Con molta gioia qualche mese fa mi sono recato in pellegrinaggio al suo luogo natio, Bagnoregio, una cittadina italiana, nel Lazio, che ne custodisce con venerazione la memoria.
Nato probabilmente nel 1217 e morto nel 1274, egli visse nel XIII secolo, un’epoca in cui la fede cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia. Tra le grandi figure cristiane che contribuirono alla composizione di questa armonia tra fede e cultura si staglia appunto Bonaventura, uomo di azione e di contemplazione, di profonda pietà e di prudenza nel governo.
Si chiamava Giovanni da Fidanza. Un episodio che accadde quando era ancora ragazzo segnò profondamente la sua vita, come egli stesso racconta. Era stato colpito da una grave malattia e neppure suo padre, che era medico, sperava ormai di salvarlo dalla morte. Sua madre, allora, ricorse all’intercessione di san Francesco d’Assisi, da poco canonizzato. E Giovanni guarì.
La figura del Poverello di Assisi gli divenne ancora più familiare qualche anno dopo, quando si trovava a Parigi, dove si era recato per i suoi studi. Aveva ottenuto il diploma di Maestro d’Arti, che potremmo paragonare a quello di un prestigioso Liceo dei nostri tempi. A quel punto, come tanti giovani del passato e anche di oggi, Giovanni si pose una domanda cruciale: “Che cosa devo fare della mia vita?”. Affascinato dalla testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori, che erano giunti a Parigi nel 1219, Giovanni bussò alle porte del Convento francescano di quella città, e chiese di essere accolto nella grande famiglia dei discepoli di san Francesco. Molti anni dopo, egli spiegò le ragioni della sua scelta: in san Francesco e nel movimento da lui iniziato ravvisava l’azione di Cristo. Scriveva così in una lettera indirizzata ad un altro frate: “Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo” (Epistula de tribus quaestionibus ad magistrum innominatum, in Opere di San Bonaventura. Introduzione generale, Roma 1990, p. 29).
Pertanto, intorno all’anno 1243 Giovanni vestì il saio francescano e assunse il nome di Bonaventura. Venne subito indirizzato agli studi, e frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi, seguendo un insieme di corsi molto impegnativi. Conseguì i vari titoli richiesti dalla carriera accademica, quelli di “baccelliere biblico” e di “baccelliere sentenziario”. Così Bonaventura studiò a fondo la Sacra Scrittura, le Sentenze di Pietro Lombardo, il manuale di teologia di quel tempo, e i più importanti autori di teologia e, a contatto con i maestri e gli studenti che affluivano a Parigi da tutta l’Europa, maturò una propria riflessione personale e una sensibilità spirituale di grande valore che, nel corso degli anni successivi, seppe trasfondere nelle sue opere e nei suoi sermoni, diventando così uno dei teologi più importanti della storia della Chiesa. È significativo ricordare il titolo della tesi che egli difese per essere abilitato all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora. La sua dissertazione aveva come titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo. Questo argomento mostra il ruolo centrale che Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura. Possiamo dire senz’altro che tutto il suo pensiero fu profondamente cristocentrico.
In quegli anni a Parigi, la città di adozione di Bonaventura, divampava una violenta polemica contro i Frati Minori di san Francesco d’Assisi e i Frati Predicatori di san Domenico di Guzman. Si contestava il loro diritto di insegnare nell’Università, e si metteva in dubbio persino l’autenticità della loro vita consacrata. Certamente, i cambiamenti introdotti dagli Ordini Mendicanti nel modo di intendere la vita religiosa, di cui ho parlato nelle catechesi precedenti, erano talmente innovativi che non tutti riuscivano a comprenderli. Si aggiungevano poi, come qualche volta accade anche tra persone sinceramente religiose, motivi di debolezza umana, come l’invidia e la gelosia. Bonaventura, anche se circondato dall’opposizione degli altri maestri universitari, aveva già iniziato a insegnare presso la cattedra di teologia dei Francescani e, per rispondere a chi contestava gli Ordini Mendicanti, compose uno scritto intitolato La perfezione evangelica. In questo scritto dimostra come gli Ordini Mendicanti, in specie i Frati Minori, praticando i voti di povertà, di castità e di obbedienza, seguivano i consigli del Vangelo stesso. Al di là di queste circostanze storiche, l’insegnamento fornito da Bonaventura in questa sua opera e nella sua vita rimane sempre attuale: la Chiesa è resa più luminosa e bella dalla fedeltà alla vocazione di quei suoi figli e di quelle sue figlie che non solo mettono in pratica i precetti evangelici ma, per la grazia di Dio, sono chiamati ad osservarne i consigli e testimoniano così, con il loro stile di vita povero, casto e obbediente, che il Vangelo è sorgente di gioia e di perfezione.
Il conflitto fu acquietato, almeno per un certo tempo, e, per intervento personale del Papa Alessandro IV, nel 1257, Bonaventura fu riconosciuto ufficialmente come dottore e maestro dell’Università parigina. Tuttavia egli dovette rinunciare a questo prestigioso incarico, perché in quello stesso anno il Capitolo generale dell’Ordine lo elesse Ministro generale.
Svolse questo incarico per diciassette anni con saggezza e dedizione, visitando le province, scrivendo ai fratelli, intervenendo talvolta con una certa severità per eliminare abusi. Quando Bonaventura iniziò questo servizio, l’Ordine dei Frati Minori si era sviluppato in modo prodigioso: erano più di 30.000 i Frati sparsi in tutto l’Occidente con presenze missionarie nell’Africa del Nord, in Medio Oriente, e anche a Pechino. Occorreva consolidare questa espansione e soprattutto conferirle, in piena fedeltà al carisma di Francesco, unità di azione e di spirito. Infatti, tra i seguaci del santo di Assisi si registravano diversi modi di interpretarne il messaggio ed esisteva realmente il rischio di una frattura interna. Per evitare questo pericolo, il Capitolo generale dell’Ordine a Narbona, nel 1260, accettò e ratificò un testo proposto da Bonaventura, in cui si raccoglievano e si unificavano le norme che regolavano la vita quotidiana dei Frati minori. Bonaventura intuiva, tuttavia, che le disposizioni legislative, per quanto ispirate a saggezza e moderazione, non erano sufficienti ad assicurare la comunione dello spirito e dei cuori. Bisognava condividere gli stessi ideali e le stesse motivazioni. Per questo motivo, Bonaventura volle presentare l’autentico carisma di Francesco, la sua vita ed il suo insegnamento. Raccolse, perciò, con grande zelo documenti riguardanti il Poverello e ascoltò con attenzione i ricordi di coloro che avevano conosciuto direttamente Francesco. Ne nacque una biografia, storicamente ben fondata, del santo di Assisi, intitolata Legenda Maior, redatta anche in forma più succinta, e chiamata perciò Legenda minor. La parola latina, a differenza di quella italiana, non indica un frutto della fantasia, ma, al contrario, “Legenda” significa un testo autorevole, “da leggersi” ufficialmente. Infatti, il Capitolo generale dei Frati Minori del 1263, riunitosi a Pisa, riconobbe nella biografia di san Bonaventura il ritratto più fedele del Fondatore e questa divenne, così, la biografia ufficiale del Santo.
Qual è l’immagine di san Francesco che emerge dal cuore e dalla penna del suo figlio devoto e successore, san Bonaventura? Il punto essenziale: Francesco è un alter Christus, un uomo che ha cercato appassionatamente Cristo. Nell’amore che spinge all’imitazione, egli si è conformato interamente a Lui. Bonaventura additava questo ideale vivo a tutti i seguaci di Francesco. Questo ideale, valido per ogni cristiano, ieri, oggi, sempre, è stato indicato come programma anche per la Chiesa del Terzo Millennio dal mio Predecessore, il Venerabile Giovanni Paolo II. Tale programma, egli scriveva nella Lettera Novo Millennio ineunte, si incentra “in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste” (n. 29).
Nel 1273 la vita di san Bonaventura conobbe un altro cambiamento. Il Papa Gregorio X lo volle consacrare Vescovo e nominare Cardinale. Gli chiese anche di preparare un importantissimo evento ecclesiale: il II Concilio Ecumenico di Lione, che aveva come scopo il ristabilimento della comunione tra la Chiesa Latina e quella Greca. Egli si dedicò a questo compito con diligenza, ma non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica, perché morì durante il suo svolgimento. Un anonimo notaio pontificio compose un elogio di Bonaventura, che ci offre un ritratto conclusivo di questo grande santo ed eccellente teologo: “Uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini… Dio infatti gli aveva donato una tale grazia, che tutti coloro che lo vedevano erano pervasi da un amore che il cuore non poteva celare” (cfr J.G. Bougerol, Bonaventura, in A. Vauchez (a cura), Storia dei santi e della santità cristiana. Vol. VI. L’epoca del rinnovamento evangelico, Milano 1991, p. 91).
Raccogliamo l’eredità di questo santo Dottore della Chiesa, che ci ricorda il senso della nostra vita con le seguenti parole: “Sulla terra… possiamo contemplare l’immensità divina mediante il ragionamento e l’ammirazione; nella patria celeste, invece, mediante la visione, quando saremo fatti simili a Dio, e mediante l’estasi … entreremo nel gaudio di Dio” (La conoscenza di Cristo, q. 6, conclusione, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 187).

SAN GIOVANNI DI DIO: IL PADRE DEI MALATI

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Nacque in Portogallo, ma ben presto fuggì di casa. In gioventù, si arruolò  tra i soldati di ventura, partecipando anche alla difesa di Vienna sotto l’assedio ottomano di Solimano II.

Vagò poi fino in Africa e divenne bracciante, poi venditore ambulante; infine a Granada aprì una piccola libreria.

Una vita frenetica, senza scopo, senza ambizioni.

Giovanni ascoltò un giorno provvidenzialmente, una predica di San Giovanni d’Avila.

Decise di cambiare vita: si privò di ogni cosa ed andò a mendicare per le vie di Granada, spartendo ciò che aveva con i più poveri.

Alcuni non comprendevano la fede di Giovanni, perciò lo rinchiusero in un manicomio.

Ma Dio si servì anche di questo.

Giovanni si rese conto della condizione in cui si trovavano i malati mentali, curati con metodi degni di un torturatore.

Appena riuscì ad uscire, fondò con l’aiuto dei benefattori un ospedale e si mostrò, nonostante fosse ignorante di medicina, più bravo degli stessi medici, anticipando certi aspetti del metodo psicoanalitico.

La cura dello spirito era necessaria per la cura del corpo. Solo così si poteva giovare ai malati.

Giovanni fondò una famiglia ospedaliera, i Fratelli Ospedalieri (Fatebenefratelli).

L’8 Marzo 1550, dopo aver servito i malati e dopo aver improntato la sua vita alla carità di Maria, morì per entrare nella gloria.

Proposito: una corona del Rosario per tutti i medici

SAN GABRIELE DELL’ADDOLORATA: UN SANTO PER I GIOVANI

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Giovane studente di 18 anni, intelligente e pieno di vita, nel fiore della giovinezza decise di “lasciare tutto per Gesù”, entrando nell’Ordine dei Passionisti, fondato da S.Paolo della Croce.

Un’esistenza significativa, che ancora oggi ricordiamo.

Fin da bambino, nutriva una tenera devozione verso la Madonna. Aveva nella stanza una statua della Madonna Addolorata, e la contemplava spesso, pregando e meditando i suoi dolori.

All’origine della sua vocazione, ci fu un intervento soprannaturale.

Era il 22 Agosto 1856. A Spoleto, durante una processione mariana, Francesco Possenti fu toccato dalla grazia.

“Cosa fai ancora nel mondo? Segui la tua vocazione”. Era la voce di Maria che lo invitava a farsi santo.

La svolta fu radicale. Era nato Gabriele dell’Addolorata.

La vita religiosa non lo spaventò, anzi si adattò in tutto e per tutto alla rigida regola della Congregazione.

Aggiunse un voto personale mariano, diffondendo la devozione verso l’Addolorata.

La salute si stava però deteriorando: si ammalò di tubercolosi, che lo condusse alla morte a soli 24 anni.

Oggi il suo Santuario in Abruzzo, è meta di pellegrinaggi da tutto il mondo.

In un santo così giovane ed attuale, si può imparare molto.

Preghiamo Maria, affinché molti altri giovani nel mondo, diventino presto santi come Gabriele.

Proposito: una corona del Rosario per tutti i giovani del mondo

SANT’ALESSANDRO: PATRIARCA D’EGITTO

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Campione di fede e protagonista della lotta contro l’arianesimo, nel 313 d.C. fu eletto Patriarca di Alessandria, in un momento di grande difficoltà per la Chiesa.

Scelse i futuri chierici tra uomini di grande virtù ed iniziò la costruzione della chiesa di S. Theonas, la più grande della città.

Combatté l’eresia ariana, introdotta da Ario, il quale per diffondere la propria dottrina si serviva perfino delle canzoni che il popolo cantava, senza rendersi conto degli errori dottrinali in esse contenute.

In un primo momento, tentò di far ragionare Ario con dolcezza, ma fallito anche questo metodo, fu costretto a convocare un sinodo di Vescovi, durante il quale le testi di Ario furono respinte.

Nella controversia s’inserì anche l’Imperatore Costantino, il quale, per insistenza di Alessandro, convocò il concilio di Nicea (325), dove l’eresia ariana fu definitivamente confutata.

Alessandro, ormai stanco e consumato dagli anni, tornò ad Alessandria, dove la morte lo colse qualche mese più tardi.

I suo contemporanei lo descrissero come un uomo tenuto nella massima considerazione dal popolo e dal clero, magnificente, liberale, eloquente, amante di Dio e di Maria, dedito ai poveri, al bene ed alle mortificazioni.

Proposito: una corona del Rosario per tutti i Vescovi

SAN POLICARPO: L’EROE DI SMIRNE

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Nato da una famiglia benestante, venne messo a capo dei cristiani circa verso l’anno 100.

Nel 107, fu testimone di un evento straordinario: passava per Smirne Ignazio, Vescovo di Antiochia, diretto a Roma per subire il martirio.

Policarpo lo ospitò e più tardi ricevette da lui anche una lettera: probabilmente, Policarpo trovò la forza per affrontare il martirio, anche grazie all’esempio di Ignazio.

Durante l’Impero di Antonino Pio, scoppiò una feroce persecuzione anticristiana: un gruppo di facinorosi, trascinò nello stadio anche Policarpo anziano (aveva 86 anni!), per ucciderlo.

Il governatore Quadrato volle risparmiarlo, e gli disse di fingersi non cristiano.

Policarpo rispose tranquillo:

“Io sono cristiano”.

Poi si diresse verso il rogo. Era il 23 Febbraio, circa le due di pomeriggio.

L’anziano Vescovo fu ucciso con la spada, dopo aver servito la Chiesa con il suo ministero, dopo aver dato grande esempio di santità.

Maria l’aveva chiamato a sé, come testimone di fede.

Proposito: non vergognarsi di difendere la propria fede

SAN TOMMASO D’AQUINO: IL SANTO DELLA SAPIENZA

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A cinque anni fu mandato come “oblato” nell’Abbazia di Montecassino; ma a 14 anni fu costretto a lasciare l’Abbazia perché occupata militarmente dall’Imperatore Federico II.

Studiò all’Università di Napoli, venendo a conoscenza degli scritti di Aristotele, ed a 20 decise di entrare dai Domenicani.

Per circa un anno, fu chiuso in cella per volontà della famiglia, affinché desistette dal proposito; poi i genitori acconsentirono alla sua vocazione.

Inizialmente fu mandato a Colonia dove conobbe Sant’Alberto Magno e fu suo discepolo per cinque anni.

Nel 1252 fu ordinato Sacerdote; ad appena 27 anni fu mandato ad insegnare a Parigi Teologia.

Tutti rimanevano stupiti dalla sua intelligenza straordinaria, ma ancora di più da un’umiltà sconfinata.

Impiegò molto tempo per essere accettato dagli Accademici dell’Università: i professori degli Ordini mendicanti, erano considerati degli intrusi nell’ambito universitario.

Insegnò anche ad Anagni ed a Orvieto, divenne consigliere del Pontefice; nel 1267 iniziò a scrivere a Roma, l’opera che consacrerà la sua fama ai posteri: la “Summa Theologiae”.

Nell’ultima parte della sua vita, gli furono accordate grazie particolari, come i doni mistici, le estasi e le visioni.

Intanto il suo fisico iniziava a deperire: il 7 Marzo 1274, a 49 anni d’età, Tommaso d’Aquino, professore e scrittore di più di 40 volumi, andò finalmente incontro a Dio.

Maria, Sede della Sapienza, aveva ispirato tutta la sua vita, e Lei l’aveva portato sulle vette più alte della santità.

Proposito: una corona del Rosario per tutti i professori ed insegnanti

SANTI TIMOTEO E TITO: DISCEPOLI DI SAN PAOLO

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I due santi, sono il frutto della preghiera e dell’opera di un grandissimo apostolo: San Paolo.

Egli incontrò Timoteo da giovane, figlio di padre pagano e di madre ebrea, educato alla conoscenza delle Scritture.

Timoteo si convertì e iniziò a seguire l’apostolo in ogni suo viaggio, attraversando l’Asia Minore fino alla Macedonia.

Collaborò inoltre all’evangelizzazione di Corinto: era uno strenuo predicatore e discepolo del grande apostolo delle genti.

Tito era invece di famiglia greca, conobbe San Paolo durante uno dei suoi viaggi e decise di convertirsi al cristianesimo.

Fu inviato a Corinto, per dirimere le contese tra i cristiani di questa città e l’apostolo; divenne poi Vescovo di Creta, mentre il compagno Timoteo fu Vescovo della città di Efeso.

San Paolo scrisse ai due Vescovi alcune lettere a loro indirizzate personalmente:  in queste, si compiace che i due discepoli abbiano attinto la  forza per il loro ministero solo in Cristo Gesù, rimanendo saldi in ogni difficoltà.

Secondo Benedetto XVI, i Santi Timoteo e Tito ci insegnano a servire il Vangelo con generosità e ad essere i primi nelle opere buone.

Maria, Madre della Chiesa, ha reso questi due Santi pilastri della Chiesa nascente, e li ha posti a capo dell’intera cristianità, come massimi esempi di predicatori accanto a San Paolo, loro grandissimo maestro.

Proposito: una corona del Rosario per tutti i missionari

SANTA MARGHERITA D’UNGHERIA: PRINCIPESSA E MISTICA

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Figlia di Bela IV re d’Ungheria, la giovane Margherita a 19 anni prese il velo, divenendo religiosa nel Monastero delle Domenicane di Santa Maria nell’Isola delle Lepri, sul Danubio.

Amava meditare la Passione di Gesù ed aveva una grandissima devozione per l’Eucaristia.

Venerava in modo particolare Maria Santissima, da lei imitata in ogni virtù, in particolare nel sacrificio e nella preghiera.

Nel 1265, s’impegnò per far cessare una guerra di famiglia tra il padre ed il fratello:  nonostante Margherita fosse una religiosa, era ben consapevole delle vicende esterne e dei gravi pericoli presenti in quell’epoca storica, specialmente per le famiglie più ricche, le quali ambivano maggiormente a potere ed onore.

E’ una principessa Margherita, ma come religiosa non si fa sconti: sempre fedele alla Regola, desiderava assimilarsi a Cristo sofferente, con penitenze e digiuni.

La sua profonda ascesi, la portò alla vette della mistica più sublime: è considerata una delle più grandi mistiche medievali.

Il 18 Gennaio 1270, a neanche treant’anni d’età morì; subito dopo la morte folle di pellegrini si riversarono sulla sua tomba, chiedendo preghiere ed intercessioni.

Il processo canonico per dichiararla santa iniziò nel 1271; la canonizzazione effettiva avvenne nel 1943.

Una vita intensa ed eroica, improntata alla marianità più grande, incentrata tutta in Cristo povero e sofferente.

Proposito: una corona del Rosario per tutti i religiosi dell’Ungheria

SANT’ANTONIO ABATE: CAPOSCUOLA DEL MONACHESIMO

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Tra i Santi più amati e conosciuti della Chiesa, c’è Sant’Antonio, il quale a soli vent’anni, orfano e con un ricco patrimonio da ereditare, si dedicò alla vita ascetica, diventando un eremita.

“Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi”

Era attratto da quest’ammaestramento evangelico, e la sua scelta lo rese in poco tempo grandissimo Santo.

Come ci riferisce Sant’Atanasio, il suo biografo, Sant’Antonio era solito pregare molto e studiare le Sacre Scritture, in uno stile di vita eroico per un giovane come lui.

Dopo qualche anno di questa vita ascetica, iniziarono a tormentarlo dubbi su dubbi, pensieri negativi, oltre all’istinto della carne ed all’attaccamento ai beni materiali.

Iniziò una dura lotta: Antonio visse in un terribile periodo di oscurità spirituale, come moltissimi altri mistici dopo di lui.

Sul suo esempio, molti giovani scelsero la vita eremitica: si costituirono così due monasteri, dove ciascun monaco aveva una grotta solitaria, e poteva avvalersi dei consigli di Sant’Antonio per il cammino dello spirito.

Sostenne l’amico e biografo S.Atanasio, impegnato a combattere l’eresia ariana, scrisse in suo favore anche una lettera all’Imperatore Costantino.

Prima di morire, si trasferì nel deserto della Tebaide per sfuggire agli occhi dei curiosi; qui il 17 Gennaio 356, a 106 anni d’età, spirò nella beatitudine, andando ad accrescere la folta schiera dei Santi.

Sant’Antonio è stato un’anima mariana, contemplativa ed orante come la Vergine in preghiera; chiediamo dunque anche noi uno spirito di preghiera così forte come lo è stato in questo straordinario Santo.

Proposito: una corona del Rosario per tutti gli eremiti